seguito da: 1. Foligno e Dante
Con la recente pubblicazione del ponderoso volume collettaneo su Federico Frezzi e il Quadriregio, a cura di Elena Laureti e Daniele Piccini (Longo, Ravenna, 2020, 805 pp.), nemmeno l’altro rapporto che unisce la nostra città all’Alighieri dovrebbe più dimenticarsi: Su lo scorcio del secolo XIV e i primordi del XV / […] pensò e scrisse il Quadriregio / FEDERICO FREZZI / unico imitatore della DIVINA COMMEDIA / sempre degno di memoria», come vollero i concittadini tramandare ai posteri esattamente cenno anni fa, nel VI centenario della morte di Dante, affiggendo la lapide all’esterno del convento di San Domenico.
Sul rapporto creazione/imitazione bene si è espresso Giacomo Leopardi nello Zibaldone, 4357: «Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentimento suo proprio, non dagli altrui. […] Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico». In ciò, Leopardi individua la differenza tra il poeta epico, incapace di esprimere sentimenti suoi propri, e il poeta sentimentale, in grado (egli sì) di esprimere la lirica, perché scrive di ciò che ha provato, ricreandolo poi con le parole; è appunto il tema del poeta come creatore, piuttosto che come imitatore. E in ciò può trarsi una rilettura di Frezzi diversa da quanti videro nel Quadriregio una «grottesca figura di idee astratte, ove tutto è chiaro, logico e concorde», incapace cioè di una necessaria «contraddizione artistica» (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, introduzione di L. Russo a e a cura di M.T. Lanza, Milano, Feltrinelli, 1970, pp. 161, 164). Tutti gli Atti del Convegno del 2017, curati da Laureti e Piccini nel ’20, si sforzano in fondo di sottrarre Frezzi a una lettura scontata: non imitatore di Dante, nemmeno unico sempre degno di memoria, per dirla col campanilismo dei concittadini di un secolo fa, ma autore a tutto tondo, che da uno spunto seppe trarre un’opera d’arte.
Dante stesso non scrisse dal nulla. E Leopardi, d’altronde, non ritentò quella stessa epica che più sopra gli abbiamo visto criticare? Non guardò forse anch’egli a Dante? (sebbene, come scrisse, «il linguaggio poetico italiano [non] è o fu mai quello di Dante. Dico generalmente parlando, e non d’alcuni pochi e particolari poeti, suoi decisi imitatori, come […] l’autore del Quadriregio Federico Frezzi», Zibaldone, 3014). Prettamente dantesca è la giovanile cantica L’appressamento della morte (1816, cinque canti in endecasillabi incatenati, edito postumo), ma poi calata nel personale dolore, come pure il Quadriregio è la redenzione di un uomo: personale, anche in quanto didattica. Danteschi, se non altrove almeno nel viaggio infernale del topo-protagonista Leccafondi, sono in fondo anche quei Paralipomeni della Batracomiomachia (la continuazione della pseudomerica battaglia delle rane e dei topi), in cui Leopardi si ispira all’epica e che tanto cari sarebbero risultati ai Folignati e agli abitatori della culta valle, perché vi rimase l’immortale descrizione del tipico paesaggio umbro.
segue in: 3. Federico, Giacomo e Foligno